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testi critici

Testo critico di Teodosio Martucci

Ogni artista se vuol essere e rimanere tale non può evitare di affrontare il nodo intricato della realtà avvalendosi della forza di penetrazione che gli è offerta dalla continua ricerca creativa. Un impegno che Pellitta ha iniziato ad approfondire sin dalle sue prime esperienze pittoriche sul principio degli anni settanta in cui manifestava tendenze realistiche, filtrate attraverso una disincantata osservazione della natura, come si può verificare in una serie di dipinti rappresentanti la piazza Ducale di Vigevano. Ma è nella seconda metà del decennio che il linguaggio figurativo dell’artista trova un suo percorso più congeniale attraverso una essenziale sintesi formale e cromatica. S’incontrano nelle pitture di questo periodo visioni di paesaggio in cui il dato lirico prevale sull’intendimento naturalistico, presentandosi modulato in leggere tonalità rosa, arancioni, crepuscolari o grigio-nebbia. Queste inclinazioni visive, prevalentemente neo-romantiche non esprimono, agli occhi del pittore, tutta la tensione comunicativa da cui è energicamente pervaso. Ne consegue che l’analisi creativa dell’artista s’indirizza essenzialmente verso il colore concepito, però, come immediato linguaggio di serrata gestualità e rigogliose tonalità a cui non si sottraggono collegamenti con la cultura visiva di Cèzanne e di Van Gogh. Nelle opere successive, degli inizi degli anni ottanta, la sua pittura assume un andamento formale espressionista in cui la pennellata sempre più rapida pare quasi “inghiottire” la forma naturalistica ridotta, ormai, ad una serie di vortici cromatici e matrici di scandita violenza compositiva. Sono immagini che possono, a nostro avviso, incontrare anche qualche incidenza di percorso con alcune prospettive para-informali e con il concitato e fulmineo grido pittorico di un De Kooning o con il mondo poetico di un Kokoschka. Nondimeno può essere circoscritta in questi, pur rilevanti contributi, lo sforzo immaginativo di Pellitta che è volto a ricercare sempre nuovi moduli e schemi espressivi. A questo proposito è interessante prendere in considerazione alcuni interventi e disegni grafici dell’artista che denotano immagini finemente stilizzate di uccelli, uomini, e volti, in un equilibrato connubio tra naturalismo e dimensione surrealista. Quello che maggiormente stupisce in essi è la levità del segno e del gesto, divenuto praticamente tocco, come se l’artista ponesse un primo mattone verso una più marcata esigenza costruttiva della forma. Infatti ciò che in questi disegni è risolto in termini grafici e formali, in dipinti dello stesso periodo, verrà risolto più pienamente a livello del colore. In paesaggi del 1978-88 si può ravvisare una struttura compositiva nella gradazione e sovrapposizione tonale che diviene il fermento potenziale su cui, poi, la matericità corposa dell’intervento dell’artista, innesta forza ed energie fisiche che corroborano la genesi dell’immagine. Il colore si estende in dense campiture che forgiano, in scattanti scavi di profondità, l’originale e dinamica “prospettiva” dei suoi orizzonti paesistici. Nel proseguimento del suo lavoro Pellitta pare aver incontrato, allora, la sua congeniale e matura fibra compositiva. Difatti l’alleggerimento dei toni che spaziano dall’azzurro, al giallo, al rosso-carminio, al verde della vegetazione, consente alle masse cromatiche di saldarsi in sintesi più rapide, superando in velocità la potenziale inerzia della materia. Gesto espressivo e simultanee saldature tra i vari elementi compositivi sembrano gli aspetti principali del “costruttivismo” del pittore in cui l’impronta riconoscibile del reale è ricondotta al piano del divenire fisico dell’energia più che della stretta resa naturalistica dell’immagine. Una pittura quella di Pellitta che allarga il suo impegno creativo ad una tensione inventiva non estranea all’esperienza espressionista ed informale ma che non declina anche certe soluzioni di tendenza surrealistica e dell’astrazione organica. Pertanto diverse sono state le componenti formali che il pittore ha esaminato finora nel corso della sua attività artistica ma che, comunque, ha sempre saputo definire sul piano dell’autentica unità estetica e sorpresa poetica.

Milano, 1990

LA CIFRA SPAZIALE DI VINCENZO PELLITTA
testo critico di Carlo Franza

Attraverso una maniera coerentissima di elaborazione dell’oggetto estetico, da non definirsi né, astratto né figurale, Vincenzo Pellitta riconsegna al lettore visivo un’arte che è gioco a se stessa, fondando un’iconografia vagabonda, sparsa, su cui lavora per intrinseci incanti, approdando a un equilibrio formale e mentale, tutt’altro che improprio, che immette a mio avviso in una sorta di principio del silenzio. Una sfida forte sullo spettacolo del progresso consecutivo che rivela le infinite probabilità di scoprire il diverso dal già fatto ovvero la movimentazione di forme e di spazi attraverso la sequenzialità di moduli o appendici. L’artista Pellitta ha affiancato le posizioni di questo alfabeto in fasi formali le cui tendenze sobillano la fantasia a farsi “opera aperta” con relazioni dipinte e parallelamente ricostruite. L’idea del disegno si edifica con il materiale ferroso, celluloide, o altro, a scavare nell’anima totale le presenze clandestine delle composizioni emotive, miscellanee godibili e curiose, con il piacere dell’intrigo della materia inanimata. E insistendo fra una segnaletica di trasparenze, impasti, solchi e camminamenti, i percorsi chiusi-aperti, grazie a quell’esprit philosophique, determinano la possibilità di nuovo sguardo,una protesi per il miraggio. Pellitta offre con questo lavoro personale e inedito, immagini di forme pure, portando altri fuochi al grigio panorama di valenze percettive nella rappresentazione d’un significato visuale senza declamazione. La cifra spaziale che il nostro operatore diffonde, contiene in sé il modo di come approdare alle soglie di un miraggio funzionale, forsanche temporale, sequenziale, da leggersi talvolta come orma, che diffonde nell’opera un’intima eternità, spettrale, magnetica, optical. Proprio queste mediazioni optical, certa caratura delle qualità visive e tecniche del costruttivismo storico, le scissioni e i referenti simbolici, ingenerano una “meraviglia inquietante”, e per dirla con Blanchot una dominazione a cifrario semplice, silouhettes spaziali che percorrono nella memoria eventi quasi ipnotici. L’opera è come organizzata in una percezione approssimativa, un pretesto comunicazionale che intreccia il dato mentale e una luce che avanza come una superficie già sensibilmente razionale fra contrasto e rifrazione. Le quintessenze dell’infinito, intraviste anche in una sorta di stereotipia divisionistica, di sintesi ottiche dissimulate, ci portano a convivere con varie intersecazioni di linee, di calcoli dell’essenziale, di principi ghestaltici purovisibilistici. Talvolta sono proprio le pellicole di colore naturale dei materiali, nelle forme ad esse più appropriate, circolari, losangate, lineari, rettangolari, a far gioco nello spazio, a dare valenza vitale ai trapassi abilmente tensivi, a computerizzare quasi la modernità. Pellitta segue ormai una sua regola, una scena spettacolare gli si combina tra forme e colori, senza dubbio in una testualità arricchita di convenzionalità e di privilegi, di oggettività e di climi dialettici, ove ogni opera plana tra possibilità e impossibilità, tra sperimentalismi e complessità, così che la manualità pensosa e semplice cerca uno spazio nuovo, un “oltre” a cui si adegua lo schema multiplo della sequenza originaria. Ed allora nei canoni di una ottica utopia, questa recente produzione di Vincenzo Pellitta ritrova una funzione interiore, si offre come simulacro sorgivo che sposta le onnivalenze di linguaggio e imprime ai materiali una nuova iconografia vestita di solchi, di imprimiture trans-culturali.

Milano,1999
TECNOLOGIA – CREATIVITÀ
testo critico di Rossana Bossaglia

Quando nacque l’arte cosiddetta astratta, l’idea che essa proponeva era l’indipendenza della creatività fantastica dai rapporti con il reale; non si negavano stimoli, provenienti dalla luce e dai colori della natura e dalle strutture ambientali, ma si escludeva dalla resa in immagine un’intenzione descrittiva. L’arte astratta prese subito due direzioni; e una di queste era la scelta di formule geometriche; esse intendevano conferire una logica rigorosa alla traduzione del fantastico in figure; e tale atteggiamento in molti casi indusse a riflessioni sui rapporti arte-matematica, arte-scienza.
Il preambolo intende non tanto sottolineare la matrice geometrica delle elegantissime composizioni di Pellitta, matrici che ormai hanno dato luogo a filoni specifici dell’astrattismo nel corso di un intero secolo; ma precisare che da una parte Pellitta sente profondamente il fascino di figurazioni ritmiche, simmetriche, di musicale scorrevolezza; dall’altra che la novità della sua ricerca è soprattutto costituita dal materiale da lui impiegato e dai procedimenti tecnici seguìti.
La predilezione per strutture metalliche si appoggia a sistemi e macchine compositive di carattere tecnologico; l’uso del laser, dei meccanismi computerizzati sostituisce i procedimenti di libera manualità ai quali l’arte visiva da sempre si appoggiava.
In altre parole, Pellitta dimostra e sottolinea l’ingresso della tecnologia nel mondo della creatività.
E dimostra che se da una parte i mezzi moderni consentono effetti compositivi, con sottigliezze combinatorie e ritmi scattanti, di preziosa efficacia, dall’altra è l’artista che con la sua creatività legata a un’approfondita cultura è in grado di utilizzare le novità tecniche al servizio di una sensitività delicatissima, si badi per esempio alla finezza di questa tavolozza-usiamo un’espressione tradizionale-tutta giocata su variazioni di grigio che toccano la soglia dell’azzurro.
Quanto nella produzione di Pellitta appare come una resa vibrante nasce certamente dal suo modo di sentire l’effetto artistico; ma testimonia che l’intelligenza nell’uso degli strumenti è al servizio della creatività, e tanto più un’opera d’arte è persuasiva quanto più vi pulsa lo spirito del tempo.

Milano, agosto 2003

TROVARE
Testo critico di Alberto Veca

è il primo esercizio, direi preliminare, nel lavoro di Vincenzo Pellitta. Si tratta di una attività di un certo interesse anche perché il verbo, di origine sicuramente romanza, è stato capace di aggiungersi a vocaboli di origine latina dotati di più consolidata tradizione come invenire o reperire: quindi denuncia una radicale novità.
Appunto “comporre”, “confrontare” “mettere insieme” nell’ambito della parola come della musica: mi sembra un riferimento calzante nell’occasione perché Pellitta parte proprio da una ricerca di “figure” già date, offerte dalla produzione industriale di precisione, o meglio dagli scarti di essa, dai ritagli di sagome destinati alla realizzazione di serie. L’artista ne riconosce la fisionomia, li “mette” insieme in un archivio di forme che successivamente verranno selezionate e diversamente combinate.
“In principio” in altri termini vi è questa operazione di “selezione” e elezione dei protagonisti della vicenda. La figura di partenza è allora “data” e non vi è alcun intervento correttivo dal punto di vista della sua fisionomia: sembrerebbe un avvio “riduttivo” rispetto al tradizionale atteggiamento “libero dell’artista davanti al campo prescelto “vuoto” e da riempire, ma la creatività è nel cogliere, meglio nel “raccogliere” segnali eterogenei, nel riconoscerli come possibili attori dell’opera plastica.
Ho accennato al tema dello “scarto” ma non mi sembra vi sia nell’operare una particolare attenzione al “rifiuto” e alle sue possibili, anche suggestive, implicazioni che le ricerche espressive del Novecento hanno condotto: il punto di partenza può assomigliare, con i dovuti distinguo dei materiali adottati, a ciò che resta di un foglio di carta, una volta ritagliata una figura: il “vuoto”, conseguentemente i margini che lo delimitano, diventano i protagonisti del fare immagine.
Questo, se vogliamo, l’approccio d’esordio, preliminare nella discussione in gioco perché, all’“invenzione” di una figura, succede, sempre in fase progettuale, un secondo atto operativo, quello della sua traslazione identica, della sua successione diversamente ribaltata, invertita o “a specchio”.
Per usare categorie linguistiche siamo nel mondo della ripetizione e della combinazione: la figura si pone allora come “modulo” la cui fisionomia risulta determinata dall’ordine, dalla disposizione e dal numero degli elementi messi in gioco tali da definire il campo plastico. Non esiste una figura “a sé”, totem isolato senza confronti se non quelli suggeriti dall’immaginazione di chi osserva: il lavoro tende a mettere in evidenza proprio il “comportamento” della singola immagine prima di tutto rispetto a se stessa, alla sua moltiplicazione secondo un ordine lineare che, dal punto di vista strutturale non da quello percettivo, appartiene all’andamento della scrittura, ancora una suggestione di quel “trovare” citato in esordio.
E questo può avvenire tanto nel caso della ripetizione identica della singola figura, almeno dal punto di vista formale, quanto quando Pellitta associa due o più figure all’interno della medesima superficie, in questo compiendo un’operazione combinatoria, in cui cioè variamente si alternano o si raggruppano in aree comuni diversi soggetti.
L’opera, come è frequente in operazioni in cui viene sottolineato l’aspetto modulare del campo, si presenta come un “frammento” di una figurazione che può essere estesa in un ipotetico infinito: la porzione di campo isolata è allora “campione” di un ridisegno che può giungere, almeno concettualmente, alla dimensione ambientale.
Si è insistito sul dato costruttivo, sulla logica impaginativa che di volta in volta prevede la successione uniforme, appunto all’infinito, o una costruzione “a specchio”, capace cioè di suggerire un punto origine, una soglia da cui si determina la successione; anche la combinazione di figure diverse che, percettivamente associate, diventano un modulo “complesso” da iterare.
Aver tralasciato una riflessione sull’intervento cromatico dipende dall’interesse iniziale di cogliere l’aspetto “architettonico”, compositivo del lavoro che è l’ulteriore componente, direi complementare rispetto alla ricerca della forma/modulo, della sua duplicazione e composizione sul campo.
Si è detto che il punto di partenza è una lastra di metallo che accoglie, secondo la disposizione predisposta da Pellitta, i ritagli originali: un “pieno” a rilievo allora, quello del foglio contenitore, e un “vuoto”, depresso, quello dei moduli diversamente disposti. L’artista, rispetto a questo rilievo che può assumere la suggestione della scultura- in alcuni esiti la suggestione della terza dimensione con l’intervento dello spessore e conseguentemente dell’ombra è particolarmente evidente - ha diversamente adottato negli anni due soluzioni divergenti, quella della netta bicromia, fra la lastra lasciata al vivo e il fondo monocromo e, diversamente, quella di intervenire sui ritagli con una tavolozza ridotta ai colori primari.
Fra le due soluzioni non vi è contraddizione, eventualmente diversità degli effetti che si vuole ottenere dal singolo esito: appunto il “trovare” come ritmo diventa un ulteriore coinvolgente legame con il discorso, alle soglie della “illustrazione” di uno spartito musicale che prevede armonia come dissonanza, continuità e cesura.
L’“ordine del discorso” sembra permettere anche queste variazioni e licenze.

Milano, aprile ’08




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